(Alessandro
Notarnicola) L'atto del perdonare è sin da sempre stato posto al centro
delle riflessioni dell'uomo, anche prima che nascesse e si diffondesse
il cristianesimo. L'uomo relazionandosi alla storia e al proprio
presente ha sempre avvertito il bisogno di superare le disarmonie e i
conflitti tragici del passato anche attraverso atti di clemenza. «Pietro
domandò: 'Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me,
quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?'. Gesù gli rispose:
«Non dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette » (Mt 18,
21-22). Nel mondo di comune radice ebraico-cristiana l'atto del
perdonare rappresenta la massima donazione di sé, ma anche uno stato
penitenziale di riconoscimento e cambiamento dei propri limiti.
Proprio
questa è la ragione prima che ha guidato uno dei momenti più importanti
(e storici) del pontificato di Papa Giovanni Paolo II, il quale il 12
marzo del 2000 abbracciando e baciando il crocifisso nella Basilica di
San Pietro chiese sette volte perdono, assieme a 7 altri cardinali
capi-dicastero (tra i quali vi era anche l'allora cardinale Joseph
Ratzinger) che durante la messa recitarono sette invocazioni per gli
errori commessi nel corso dei secoli, intercalate dal canto del «Kyrie
eleison» (Signore pietà).
La
Giornata del Perdono del 12 marzo 2000 è senza dubbio alcuno un atto
penitenziale senza precedenti all'interno della storia, tanto che per
organizzare e motivare l'evento era stato redatto dalla Commissione
Teologica Internazionale il documento Memoria e Riconciliazione: La Chiesa e le colpe del passato,
presentato alla stampa internazionale dai cardinali Roger Etchegaray e
Joseph Ratzinger, dal vescovo Piero Marini, dai teologi Georges Cottier e
Bruno Forte (Presidente del gruppo di lavoro che aveva preparato il
documento).
Il
12 marzo del 2000, prima domenica di Quaresima, la Chiesa cattolica ha
riconosciuto le colpe commesse dai cristiani in 2000 anni di storia,
nella cornice dell'Anno giubilare che per sua natura è stato celebrato
come un momento di piena conversione. "Come Successore di Pietro",
queste le parole di Papa Giovanni Paolo II pronunciate e trasmesse in
Mondovisione in quell'occasione contraddistinta da connotati storici e
inediti, nella basilica di San Pietro, "chiedo
che in questo anno di misericordia la Chiesa, forte della santità che
riceve dal suo Signore, si inginocchi dinanzi a Dio ed implori il
perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli. Tutti hanno
peccato e nessuno può dirsi giusto dinanzi a Dio (cf. 1 Re 8, 46)... I
cristiani sono invitati a farsi carico, davanti a Dio e agli uomini
offesi dai loro comportamenti, delle mancanze da loro commesse. Lo
facciano senza nulla chiedere in cambio, forti solo dell'" amore di Dio
che è stato riversato nei nostri cuori" (Rm 5, 5) (Incarnationis Mysterium, 11; cf. Tertio Millennio Adveniente,
33). La Chiesa, che in occasione delle celebrazioni giubilari "chiede
perdono per le colpe storiche dei suoi figli" offrendo al mondo "lo
spettacolo di modi di pensare e di agire che erano forme di
antitestimonianza e di scandalo", ammetteva così il mea culpa voluto espressamente da Papa Wojtyla che aveva deciso di misurarsi con le responsabilità dei cristiani, ponendo quel Miserere
per i peccati commessi al centro del Giubileo nel bimillenario
dell'evento cristiano, poiché per varcare la soglia del nuovo millennio
essa aveva sia il bisogno che il dovere di purificarsi, nel pentimento,
da errori, infedeltà, incoerenze e ritardi.
Giovanni
Paolo II 15 anni fa, dimostrando di conoscere bene il peso che il
passato è ancora in grado di esercitare alla fine del secolo dei
genocidi, confessava i peccati commessi dai cristiani nel corso dei
secoli fino all'età contemporanea, nella coscienza che la Chiesa è un
soggetto unico nella storia, "una mistica persona".
La
prima invocazione apparve come un'esortazione generale a confessare i
peccati, a purificare la memoria e a impegnarsi «in un cammino di vera
conversione». Ad essa che aveva i parametri di una premessa ne seguirono
sei specifiche confessioni di peccato, per altrettante «colpe» storiche
e attuali, dai peccati commessi usando la forza e la violenza a
servizio della fede, nelle divisioni tra Chiese accompagnate da
scomuniche e persecuzioni, con l'antigiudaismo che ha dato luogo a vere e
proprie persecuzioni degli ebrei, operando conversioni forzate,
predicando la sottomissione delle donne e giustificando lo schiavismo,
rendendosi corresponsabili di ingiustizie sociali.
I
cristiani del presente, spiegò il Pontefice, non pensano di essere
"migliori dei loro padri", ma rispetto a quanto si potrebbe dire, essi
secondo le parole del pontefice polacco hanno il desiderio di
riconoscere quali nella storia sono stati oggettivamente errori di
comportamento rispetto al Vangelo e allo Spirito di Cristo. Per questo
nella confessione si indicano in modo chiaro alcune mancanze storiche,
ma non si giudicano né si nominano i responsabili: "Confessiamo,
a maggior ragione, le nostre responsabilità di cristiani per i mali di
oggi. Dinanzi all'ateismo, all'indifferenza religiosa, al secolarismo,
al relativismo etico, alle violazioni del diritto alla vita, al
disinteresse verso la povertà di molti Paesi, non possiamo non chiederci
quali sono le nostre responsabilità. Per la parte che ciascuno di noi,
con i suoi comportamenti, ha avuto in questi mali, contribuendo a
deturpare il volto della Chiesa, chiediamo umilmente perdono". Ma
nello stesso tempo, la Chiesa ponendosi a capo di un cammino di
riconciliazione nell'anno giubilare non si limitò a riconoscere e ad
ammettere le proprie responsabilità cosicché ad esse aggiunse l'atto del
perdono di tutti i mali che avevano arrecato dolori e sofferenze,
divisioni e spargimenti di sangue nei confronti della comunità
cristiana, non è infatti un caso che la speciale liturgia che si celebrò
quel giorno era intitolata “Confessione delle colpe e richiesta di perdono”.
"Nel corso della storia", proseguì il Santo Padre, "innumerevoli volte i
cristiani hanno subito angherie, prepotenze, persecuzioni a motivo
della loro fede. Come perdonarono le vittime di tali soprusi, così
perdoniamo anche noi. La Chiesa di oggi e di sempre si sente impegnata a
purificare la memoria di quelle tristi vicende da ogni sentimento di
rancore o di rivalsa. Il Giubileo diventa così per tutti occasione
propizia per una profonda conversione al Vangelo. Dall'accoglienza del
perdono divino scaturisce l'impegno al perdono dei fratelli ed alla
riconciliazione reciproca".
A
conclusione di quella liturgia penitenziale, Giovanni Paolo II
pronunciò cinque “mai più” che suonano come una delle utopie evangeliche
più forti che siano state affermate nell'epoca moderna: “Mai
più contraddizioni alla carità nel servizio della verità, mai più gesti
contro la comunione della Chiesa, mai più offese verso qualsiasi
popolo, mai più ricorsi alla violenza, mai più discriminazioni,
esclusioni, oppressioni, disprezzo dei poveri e degli ultimi”. Per
certi versi il pontificato wojtyliano passa alla storia come il
magistero del "perdono" e del "pentimento" e dunque di un pieno
riconoscimento che si inserisce nella cornice del dialogo ecumenico e
nell’impegno interreligioso. Sono infatti più di un centinaio le
occasioni in cui la Chiesa post-conciliare ha riconosciuto di anno in
anno “errori” e “colpe” del passato e del presente storico, o ha
invitato i cattolici ad applicarsi a questo “esame autocritico"
(soprattutto in rapporto a genocidi e persecuzioni contemporanei): si
pensi al "caso Galileo" del 1979 sul quale tra l'altro si era già
pronunciato il Concilio Vaticano II, al paragrafo 36 della Gaudium et Spes
(1965) (al quale si somma il profondo pentimento espresso il 17
febbraio del 2000, nel 400° anniversario del "rogo" di Giordano Bruno).
Si pensi ancora alla visita del pontefice polacco alla sinagoga di Roma
del 13 aprile del 1986 nella quale occasione Wojtyla non mancò di
associare alla Chiesa parte delle circostanze che avevano consentito la
drammatica notte della Shoah: “Hitler potè perpetrare l’Olocausto perché
non ci fu una sufficiente sensibilità dei cristiani verso gli ebrei”,
dirà il card. Ratzinger in un’intervista al Tg2 il 15 marzo 1999 in
vista della pubblicazione del documento We remember, rimarcando
l'intervento del Pontefice rivolto agli Ebrei romani. Sull'
antigiudaismo si è tenuto in Vaticano un simposio (1997) in occasione
del quale Giovanni Paolo affermò che «la resistenza dei cristiani» alla
persecuzione nazista degli ebrei «non è stata quella che l' umanità era
in diritto di aspettarsi dai discepoli di Cristo» (31 ottobre 1997).
A
questi due principali momenti storici possiamo aggiungere le
dichiarazioni di denuncia e di profondo rammarico del Papa sulla
colonizzazione dei cristiani nei confronti dei popoli indigeni, sulle
colpe della cristianità latina medievale, sul massacro tribale del
Rwanda del quale anche i cattolici ne erano responsabili, sulla «la
gravissima e turpe ingiustizia» della tratta dei neri, e sui peccati
compiuti contro la giustizia sociale: verso gli ultimi, i poveri, i
nascituri, ingiustizie economiche e sociali che hanno dato principio a
un vastissimo "peccato" di emarginazione.
Rarissime
sono state però le occasioni in cui le autorità ecclesiali - papa,
vescovi o concili - hanno riconosciuto apertamente le colpe o gli abusi
di cui si erano rese esse stesse colpevoli. Un esempio celebre è fornito
dal papa riformatore Adriano VI che riconobbe apertamente, in un
messaggio alla Dieta di Norimberga del 25 novembre 1522, " gli abomini,
gli abusi [...] e le prevaricazioni " di cui si era resa colpevole " la
corte romana " del suo tempo, " malattia [...] profondamente radicata e
sviluppata ", estesa " dal capo ai membri ". Adriano VI deplorava colpe
contemporanee, precisamente quelle del suo predecessore immediato Leone X
e della sua curia, senza tuttavia associarvi una domanda di perdono.
Bisognerà
attendere Paolo VI per vedere un Papa esprimere una domanda di perdono
rivolta tanto a Dio, che a un gruppo di contemporanei. Nel discorso di
apertura della seconda sessione del Concilio il Papa " domanda perdono a
Dio [...] e ai fratelli separati " d'Oriente che si sentissero offesi
"da noi " (Chiesa cattolica), e si dichiara pronto, da parte sua, a
perdonare le offese ricevute. Nell'ottica di Paolo VI la domanda e
l'offerta di perdono riguardavano unicamente il peccato della divisione
tra i cristiani e supponevano la reciprocità.
Lo
studio del tema "La Chiesa e le colpe del passato" è stato proposto
alla Commissione Teologica Internazionale da parte dell'allora
Presidente, il Card. J. Ratzinger, in vista della celebrazione del
Giubileo dell'anno 2000. Per preparare questo studio venne formata una
Sottocommissione che lavorando sulla Bolla di indizione dell'Anno Santo
del 2000 Incarnationis mysterium (29 novembre 1998), si inserì nel
processo volto a liberare la coscienza personale e collettiva da tutte
le forme di risentimento o di violenza per approdare ad un
corrispondente riconoscimento di colpa, contribuendo ad un reale cammino
di riconciliazione.
Nell'introduzione
del documento intitolato La Chiesa e le colpe del passato, reso noto il
7 marzo del 2000 dunque a soli 5 giorni dalla storica cerimonia del
perdono tenuta in San Pietro da Papa Giovanni Paolo II, si legge che la
purificazione della memoria richiede "un atto di coraggio e di umiltà
nel riconoscere le mancanze compiute da quanti hanno portato e portano
il nome di cristiani", e si fonda sulla convinzione che "per quel legame
che, nel corpo mistico, ci unisce gli uni agli altri, tutti noi, pur
non avendone responsabilità personale e senza sostituirci al giudizio di
Dio, che solo conosce i cuori, portiamo il peso degli errori e delle
colpe di chi ci ha preceduto".
(Articolo pubblicato anche su "Il sismografo")